Patrick Phelipon: non sono un sognatore. Chiacchiere in banchina.

E’ una giornata di pioggia, di quella leggera e persistente, che rende tutto simile ad un paesaggio tipico della Bretagna, ma forse è una suggestione legata ai natali della persona che sto per incontrare.

Mi trovo però a Marina di Pisa per incontrare ed intervistare un vero personaggio della nautica, di quelli con P maiuscola – in tutti i sensi.

Navigatore, progettista, costruttore, velista professionista, in poche parole Patrick Phelipon; perché già solo il nome racchiude tante storie di mare e di vela.

Ci incontriamo al bar dello Yacht Club all’interno del porto di Marina di Pisa e rivedere Patrick, dopo il nostro primo incontro sui pontili di La Rochelle nel 2017 per la partenza della Mini Transat, è uno di quei momenti che mi rendono felice ed orgogliosa di fare parte di questo mondo, il mondo del mare, che mi permette di incontrare dei veri e propri miti.

Patrick Phelipon

Patrick è un uomo molto garbato e capace di raccontare con pacata naturalezza la sua vita, anche quando parla della tempesta che ha vissuto durante il famoso Fastnet del 1979 o della sua esperienza con Eric Tabarly alla Whitbread. Lo hanno definito il più italiano tra i navigatori francesi perché ormai vive nel nostro paese da tantissimi anni, ma parlando con lui si capisce perfettamente che quello che lo identifica di più è la grande passione del mare. Passione che lo porterà a navigare intorno al mondo seguendo la rotta del grande Bernard Moitessier. Però non chiamatelo sognatore.

Patrick, sei nato in Marocco, sei cresciuto in Francia ed hai lavorato in America ed ora vivi in Italia. Dove ti senti a casa?

Dove sono al momento. Diciamo che c’è sempre la casa di famiglia a La Rochelle, dove vive mia madre, che rappresenta un riferimento per me ed i miei tre fratelli e due sorelle. C’è poi Nicoletta, la mia compagna da 24 anni, ed ovviamente lei per me vuol dire casa.

Viaggiare e vivere in posti diversi significa anche conoscere tante realtà.

Girare il mondo è stata sicuramente una grande opportunità. Sono nato in Marocco perché mio padre aveva una piantagione di arance e lì sono rimasto fino ai 14 anni. Nel 1967 ci siamo trasferiti a La Rochelle dove mio padre ha aperto un negozio di nautica, perché aveva la passione del mare. Ogni estate infatti si tornava in Francia per le vacanze e io navigavo con lui. Poi, essendo lontani parenti della famiglia Jeanneau, mio padre iniziò a vendere le loro barche mentre io navigavo con il responsabile del cantiere. Questo ovviamente mi ha dato l’opportunità di entrare nel mondo della nautica, iniziando così a girare il mondo. Pensa, mi è anche capitato di essere contattato per valutare il rilancio di un cantiere fondato da alcuni australiani, cacciati poi via dal governo dell’Eritrea. Ho passato sei mesi in Africa girando posti che nessun europeo, all’epoca, aveva visto proprio perché erano vietati, tutto con il benestare del governo. Un’esperienza incredibile, soprattutto dal punto di vista umano.

Sul tuo sito c’è scritto: “Patrick è un sognatore”.

Nicoletta infatti dice che devo toglierlo, perché non sono affatto un sognatore. Ho dei sogni ma penso di avere i piedi per terra e di essere molto concreto. Infatti, per il progetto Golden Globe Race quando mi sono reso conto di non essere in tempo con la preparazione della barca, rischiando quindi una brutta figura, ho pensato di trovare un altro modo per fare il giro del mondo, perché il mio obiettivo non era la regata ma navigare. La Golden Globe era un pretesto. Inoltre, dal punto di vista della sicurezza c’erano delle cose richieste dall’organizzazione che non mi convincevano al 100%, secondo la mia esperienza di navigazione. Ho un bel sogno, quello sì, ma non sono un sognatore.

Come è nato allora il progetto di navigare intorno al mondo lungo la rotta di Moitessier?

Il Golden Globe (la regata intorno al mondo, in solitario e senza scali che si disputò nel 1968, oggi conosciuta come Vendée Globe. N.d.r) è Sir Robin Knox Johnson e Bernard Moitessier, sono loro i due grandi protagonisti di quell’evento. A quanto mi risulta nessuno ha mai ripercorso la rotta che Moitessier fece dopo aver abbandonato il Golden Globe. Dopo tanti anni di regate e di competizioni volevo passare ad una fase diversa, più matura (ride). Mi intriga l’evoluzione di quello che fece Moitessier: lui partì per il Golden Globe per vincere la regata, poi ci fu il cambiamento che lo fece diventare il personaggio che tutti noi conosciamo, quello che decise di continuare a navigare per salvarsi l’anima. Cosa succederà alla mia mente ed a me stesso ripercorrendo la sua rotta? E’ questo che mi incuriosisce. Cinquant’anni fa Moitessier era contro alcuni aspetti della società di allora e ci sono molti aspetti del suo pensiero, su alcuni temi, che sono attuali ancora oggi. Questo viaggio potrebbe essere un piccolo contributo per fare riflettere sul mondo in cui viviamo. Ovviamente, oggi l’informazione è globale e la voce di un singolo o viene strumentalizzata dal sistema o ha una portata limitata. La differenza tra il viaggio di Moitessier e quello che voglio fare io, sarà la possibilità di poter inviare notizie, utilizzando quindi le tecnologie moderne, ma senza avere un ritorno su quello che succede a terra. Essere in solitudine, ma comunicando quello che vivo a bordo. Non voglio essere condizionato dall’esterno. Voglio vedere in quali condizioni arriverò a Thaiti, sperando di arrivarci come da programma. Per questo mi sto prendendo tutto il tempo necessario per preparare questo viaggio. Prima mi piacerebbe organizzare alcune tratte di preparazione in Atlantico tra cui quella di andare a trovare mia sorella che vive in Guiana, dove lavora nella base spaziale europea. Visto che spesso si fanno confronti tra i navigatori solitari e gli astronauti, vorrei conoscere meglio quel mondo.

Quale sarà la barca che userai per questo progetto?

E’ un Endurance 35. Da progettista ho valutato essere una barca con buone prestazioni e sicura per questo tipo di navigazione.

Come hai preparato la barca per il giro del mondo?

Ho smontato la cabina di prua per ricavarci una cala vele, rinforzando anche la struttura per renderla più rigida. Una cosa bella di questa barca è che quando sei in dinette hai una visuale completa a 360°. E’ bello ma è anche un punto debole e quindi ho rinforzato la tuga. Metterò la timoneria interna e ho trasformato l’albero di maestra, che era appoggiato in coperta, in passante. Ho disegnato un timone di rispetto e vorrei avere due timoni a vento, uno dei quali agisce sul timone di rispetto, facilmente riparabile con il materiale che si ha a bordo.

Da non perdere:   La manutenzione del tender

Patrick Phelipon mini transat 2017

Torniamo ai tempi della tua formazione sui campi di regata. Dalla tua biografia leggo che hai praticamente rincorso Eric Tabarly e fatto di tutto per salire a bordo del Pen Duick VI e partecipare alla Whitbread del 1973. Raccontami come è andata.

Avevo 18 anni e Tabarly aveva iniziato la costruzione della barca per questo progetto. All’epoca facevo le regate, anche con Cino Ricci, sugli half tonner, quarter tonner e così via, quindi barche piccole. Tabarly era tenente di vascello della Marina Militare francese e doveva imbarcare dei militari, così mandai una lettera dove comunicavo la mia disponibilità. Poi, diciamo che si sono susseguite una serie di situazioni che mi portavano sulla sua strada, oltre all’aiuto di mio padre con le sue conoscenze. Al Fastnet di quell’anno c’era stato un vero e proprio match race con una barca che poi ci ritrovammo ormeggiata a fianco all’arrivo a Plymouth. La mattina appena svegli non avevamo voglia di scendere a terra, dovendo passare su tantissime barche ormeggiate all’inglese, così per lavarci i denti abbiamo usato il gin, visto che l’acqua era finita. Da quella stessa barca ci stava guardando, quasi scioccato, il velaio di Tabarly. Qualche tempo dopo, in negozio di mio padre venne un tizio che parlò della possibilità di fare le chiglie in uranio, ma serviva una barca per provare questo nuovo materiale. Così gli diedi i contatti di Tabarly, che a quel punto si trovò quasi costretto ad imbarcarmi.

Che cos’era la Whitbread nel 1973, oggi conosciuta come Volvo Ocean Race?

Era una regata competitiva dove andavamo, un po’ alla cieca, ad affrontare dei tratti di mare ancora poco conosciuti. Era però diventata una sorta di grande famiglia e ci si conosceva tutti. Questo perché nelle varie tappe si stava fermi in porto per circa un mese. Era anche una grande esperienza sulla navigazione. Ricordo che Tabarly fece costruire una sorta di protezione in alluminio per il timoniere, come una barriera per ripararsi dai frangenti. Il problema era che non faceva sentire o vedere l’onda di poppa, quindi il secondo giorno dalla partenza lo fece smontare e lo buttò in mare.

Com’era Eric Tabarly? Dicono fosse di poche parole.

Effettivamente, durante la giornata parlava poco. Il Pen Duick aveva due pozzetti e lui si metteva in quello centrale, quello più a poppa era per chi era di turno alle manovre e al timone, e si guardava intorno senza dire nulla. Poteva passare anche mezz’ora, quaranta minuti. Noi ci avevamo fatto l’abitudine. Poi improvvisamente si alzava, andava a prua, si voltava e diceva: “allora, non si cambia questa vela?” Quando però era ora del pranzo o della cena e si stava insieme parlava tantissimo.

Puoi raccontarci come hai vissuto quella tragica edizione del Fastnet del 1979?

Quando siamo partiti sapevamo già che sarebbe arrivato il cattivo tempo. Ci trovavamo vicino al Fastnet verso fine pomeriggio e avevamo avuto le prime avvisaglie della burrasca; vento da Est e pioggia fine. Così abbiamo preparato un bel pastone per cena. Il passaggio al faro è stato con poco vento e sempre accompagnato da questa pioggerellina. Poi, si è alzato il vento e quando abbiamo toccato i 30 nodi ci siamo detti “ok, non è più regata, cerchiamo di andare avanti aspettando che passi”.  Abbiamo ridotto la randa con tre mani di terzaroli, tolto le vele a prua, legato e chiuso tutto. Il vento è aumentato in modo molto veloce e per andare verso le isole Scilly avevamo il mare al traverso, solo con la randa facevamo 10 nodi. Le onde che colpivano la barca la facevano intraversare e si scivolava per 15 – 20 metri, poi la barca si raddrizzava. Fuori restavano due persone e gli altri tutti sottocoperta. Mi ricordo che ho provato a dormire nell’armadio delle cerate, perché tutte le cuccette erano occupate, ma pioveva dentro e allora ho preferito uscire. Al mattino abbiamo sentito alla radio delle discussioni sulle richieste di aiuto della notte ma pensavamo che qualche barca si fosse trovata in difficoltà, niente di più. Durante la notte non avevamo avuto modo di ascoltare il VHF, eravamo concentrati a navigare, sentendoci comunque in sicurezza. Al passaggio degli elicotteri della mattina salutavamo con la mano. Solo quando siamo arrivati a terra abbiamo capito cosa fosse successo e siamo letteralmente “sbiancati”. Per noi infatti è stato un duro colpo il dopo, quando arrivati ci hanno detto dei morti e delle barche affondate.

La progettazione di imbarcazioni è stata un’attività molto importante nella tua professione. Cosa rappresenta per te?

Significa realizzare qualcosa che ho in mente. Io la barca la disegno perché prima la visualizzo nella mia testa, cosa che non tutti riescono a fare. Poi, vederla realizzata e navigare è una grande soddisfazione. Mi piaceva anche fare cose nuove.

Cosa è cambiato oggi nella progettazione di una barca? C’è una esasperazione, vedi i foil, ecc.?

E’ come la nostra vita: bisogna fare di più. E’ una fuga in avanti a grande velocità. Il mondo ha sempre seguito una crescita ma oggi è troppo veloce e ripida e se ci saranno dei benefici, fatico a vederne. Forse ragiono da vecchio. Però seguo con attenzione queste evoluzioni e questi nuovi concetti di progettazione, perché mi piace. A dire la verità, avevo disegnato delle cose molto simili ai foil quando ero più giovane, ma essendo autodidatta e non avendo le base per fare dei calcoli sono rimasti dei disegni.

Patrick Philipon Laura Doria
Insieme a Patrick dopo la nostra intervista.

 

 

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Scritto da
Laura Doria
Laura Doria
Mi chiamo Laura Doria e sono nata al mare, quindi raccontare storie ed incontrare i personaggi del mondo della nautica è qualcosa di naturale per me. Perché è sempre un grande privilegio scrivere della passione che punta la prua verso i grandi orizzonti blu.
  1. ebbi la fortuna di conoscere Patrick durante il periodo che lavoravo al Cantiere del Pardo a Forlì. Patrick veniva spesso, era una specie di consulente. Ho sentito subito un’amicizia verso di lui, anche se in realtà ci siamo mai frequentati. Cm q ora lo seguo (in rete) e auguro ogni bene a lui e sua barchetta e anche alla Nicoletta!

  2. ho cercato di marcare le cinque stelle, ma ne segnala solo una.
    bellissimo articolo per una grande personaggio.
    Brava l’autrice.
    Paolo Rastrelli
    (direttore della rivista mensile on line “NOTIZIARIO CSTN” di storia, cultura e tradizioni marinare, inviato gratuitamente. per ottenerlo chiedere a redazione@cstn.it

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