Passione e professionalità per andare in mare. Chiacchiere in banchina con Stefano Cioni

La passione per il mare non basta per diventare dei professionisti. Soprattutto se lavori per un grande della vela come Sir Robin. Stefano Cioni mi racconta del suo lavoro e di quando ha insegnato ad ormeggiare alla Regina della Thailandia.

 

Stefano Cioni è un amico su Facebook.
Uno di quei contatti che il famoso algoritmo ti consiglia per milleuno motivi; amicizie, interessi, luoghi in comune.

Non ricordo chi ha chiesto l’amicizia a chi e da quanto tempo siamo in contatto, ma i suoi post li seguo sempre con molto piacere perché parlano di vela, di mare, di regate e di barche. Ricordo però che una cosa mi aveva colpito di questo mio “amico” virtuale: la cerata con il logo della Clipper Round The World Race che indossa nella foto del profilo.

stefano cioni
La Clipper Race è il giro del mondo in regata, per equipaggi non professionisti, ideata da Sir Robin Knox-Johnston, un’istituzione della vela oceanica, e Stefano è l’unico italiano a farne parte come Training Skipper.

Lo devo ammettere, il fatto che facesse parte del team di Sir Robin è stata la cosa che mi ha subito incuriosito quando sono andata a sbirciare il suo profilo, e così ho pensato di contattarlo per un’intervista, che lui ha carinamente accettato subito, sempre in perfetto stile “Chiacchiere in banchina con HiNelson”.

Stefano Cioni, classe 1976, è toscano di origine e leggendo il suo curriculum mi rendo subito conto che avrà sicuramente delle storie interessanti da raccontarmi, e non solo perché conosce Sir Robin.

Come e quando è iniziata la tua passione per il mare?

La passione per il mare l’ho sempre avuta. La passione per la vela è invece iniziata vent’anni fa grazie alla mia compagna. Io andavo a cavallo e lei aveva una barca a vela e mi piaceva l’idea di imparare a navigare. Così io ho iniziato ad usare la sua barca e lei si è appassionata ai cavalli.

Cioè, vi siete scambiati la passione?

Ci siamo prestati la passione dell’epoca, diventata poi per me un lavoro.

Nel tuo curriculum ho letto che prima della nautica eri un manager. Cosa ti ha portato a questo cambio “professionale”?

Lavoravo nel settore finanziario e all’inizio mi piaceva. Poi il settore è cambiato ed oltre a non dare più le soddisfazioni di prima si era impoverito sul fattore umano, o forse ero io ad essermi stancato, ed erano più i problemi che le gratifiche. Così ho fatto una scelta e ho deciso di cambiare, ovviamente con i pro e i contro che ne conseguono. Da semplice amatore ho deciso quindi di entrare nel mondo della nautica come professionista e questo ha richiesto un impegno ed una dedizione totale.  Lavorare in questo settore richiede infatti tanto tempo e spesso bisogna restare lontano da casa per lunghi periodi. Forse è uno degli aspetti del mio lavoro di oggi che mi pesa di più.

Cosa ti ha portato in Inghilterra, dove ho visto hai passato molto tempo?

Quando ho deciso di intraprendere questo lavoro ho scelto di essere qualificato professionalmente, per evitare la figura dello “scappato di casa”. Volevo presentarmi con tutti i documenti in ordine sia per una questione di sicurezza che per essere in linea con le normative internazionali. Da qui la scelta di andare in Inghilterra dove mi sono avvicinato alla RYA (Royal Yachting Association) ed ho avuto la fortuna di incontrare una persona che mi ha introdotto in questo mondo. Dopo aver ottenuto le qualifiche ho intrapreso il percorso da istruttore.

Quanto è importante ottenere delle qualifiche rispetto all’esperienza in acqua?

Il certificato è solo un pezzo di carta e non fa un buon comandante, ma è la base per costruire una professione. Quando prendiamo il diploma, per portare un esempio, ci manca l’esperienza ma abbiamo i fondamentali per iniziare un lavoro. Il certificato deve essere visto quindi nell’ottica di uno sviluppo professionale e personale continuo; questo è un modo di pensare tipico dei paesi anglosassoni.

Ci sono delle differenze tra il modo di vivere il mare italiano e quello inglese?

Ride e mi confida che cercherà di essere diplomatico. In entrambi i paesi la maggior parte delle persone vive il mare in uscite giornaliere. Per gli anglosassoni, però, la barca è fatta per navigare quindi non ci sono confini. Se c’è la volontà di fare la traversata atlantica o il giro del mondo si adoperano subito per raggiungere l’obiettivo, cercando di prepararsi in modo adeguato ad affrontare questo genere di impresa. E qui ci ricolleghiamo a quanto ti raccontavo prima, e cioè che l’esperienza deve andare a pari passo con la formazione.

Gli inglesi sono quindi meno spavaldi e presuntuosi?

C’è meno polemica e forse anche più rispetto, soprattutto verso coloro che hanno maggiore esperienza. Questo credo sia un atteggiamento non solo anglosassone ma tipico della cultura dei paesi del nord Europa, dove non è necessario dire la propria opinione a voce alta per essere considerati. Un esempio è proprio Robin Knox-Johnston che nei miei confronti non si è mai posto in modo arrogante o superiore, vista la sua esperienza e il personaggio, anzi, mi ha sempre spinto a fare di più per migliore il mio bagaglio di esperienza.

Ed è qui che volevo arrivare. Come è nata la tua esperienza alla Clipper Race? Tu sei l’unico italiano a lavorare in questo progetto di Knox-Johnston?

Si, sono l’unico italiano. Nel 2016 mandai il curriculum perché cercavano uno skipper e all’epoca ero già istruttore della RYA. Facemmo un’uscita a bordo di un Clipper 70, le barche che usano per fare il giro del mondo, simulando le varie situazioni che si affrontano durante la formazione. Mi dissero che c’era disponibilità per il Training e così iniziai, consolidando nel tempo il rapporto tanto che oggi sono parte dell’organigramma del progetto. Sono partito ovviamente come aiuto dello skipper per poi arrivare a diventare formatore, lavorando anche con gli attuali skipper.

Da non perdere:   Motore entrobordo ed entrofuoribordo: guida e consigli

E adesso raccontami com’è Sir Robin Knox-Johnston?

E’ un personaggio iconico, ovviamente. Ricordo che i primi giorni lo chiamavo Sir Robin perché pensavo che usare il titolo fosse doveroso, ma è una delle cose che lo fa più arrabbiare. “Call me Robin” – chiamami Robin – mi disse con il suo vocione basso, da marinaio.

Dalla tua esperienza cos’è la cosa più importante da trasmettere durante un corso di vela a chi vuole avvicinarsi o perfezionare le sue abilità?

C’è una priorità che è indiscutibile: la sicurezza. Le persone che sono a bordo di una barca devono sentirsi al sicuro e questo lo si raggiunge insegnando a prevenire il pericolo ed a saper intervenire in ogni situazione. Ovviamente ci sono le emergenze, quelle non prevedibili, e qui entra in gioco la preparazione e l’addestramento che ogni skipper deve avere.

Ci sono momenti, persone, episodi particolari che ti hanno colpito durante le tue uscite o corsi?

Tutte le volte che si parte con un nuovo equipaggio, è sempre una scoperta. I momenti più belli sono però quelli che vengono subito dopo aver superato delle condizioni meteo impegnative, dove è lì che devi fare “quadrato” con l’equipaggio. Proprio in quel momento le persone capiscono l’importanza del tuo lavoro e apprezzano la tua capacità di far funzionare tutto in modo perfetto, nonostante le condizioni di stress. Infatti, a bordo bisogna lavorare su tre principi; prima di tutto per la sicurezza, in secondo per il divertimento ed in ultimo, visto che sei in regata, deve essere fatto in modo veloce. Uno dei complimenti più bello è sentirsi dire dal tuo equipaggio che non si sono mai sentiti in pericolo, anche con forza 10. Questo è il frutto del tipo di addestramento e delle regole su cui si basa il progetto della Clipper Race.

Come è articolato il training degli equipaggi, di cui sei responsabile, nel programma della Clipper Race?

Chi decide di partecipare alla Clipper deve seguire un programma di preparazione intensivo su quattro livelli articolati su altrettante settimane. La prima settimana è di familiarizzazione con la barca. La seconda è una familiarizzazione più approfondita in una navigazione continua, quindi 24 ore su 24 per 7 giorni. La terza settimana è focalizzata sull’utilizzo delle vele in andature portanti e l’ultima è un riepilogo generale dove si naviga per 7 giorni consecutivi, ma scegliendo una destinazione e ritorno, una sorta di mini tappa nel canale della Manica. Successivamente, e prima di salire a bordo per la regata, ogni partecipante deve fare un refresh. L’obiettivo della Clipper è di formare dei buoni equipaggi, perché le decisioni vengono lasciate agli skipper che devono saper gestire le persone e la barca in un rapporto 80/20; dove 80 è l’elemento umano e 20 è condurre la barca. La Clipper Race, al di là delle tante polemiche, è qualcosa di unico nel suo genere, dove chi partecipa alla fine si trova alle spalle oltre 40.000 miglia in regata intorno al mondo.

Per polemiche ti riferisci agli incidenti accaduti in alcune edizioni della Clipper Race?

Esattamente. Ne sono capitati purtroppo tre, due dei quali imputabili al non rispetto delle regole di sicurezza da parte delle persone a cui è capito l’incidente. L’ultimo è stato cedimento tecnico: il moschettone dell’ombelicale di un membro dell’equipaggio, caduto poi in mare, ha ceduto dopo essersi impigliato in una galloccia. Una fatalità. La Clipper Race rimane comunque un’attività estrema e il compito di noi skipper è quella di lavorare per l’applicazione di tutte le procedure di sicurezza che devono minimizzare i rischi.

Stefano continua a raccontarmi delle sue esperienze che mi fanno comprendere che passione e professione hanno in comune solo la lettera iniziale. Molto spesso infatti si confondono i due aspetti che devono seguire una strada indipendente ma sempre parallela. Perché la passione non basta per definirsi professionisti, è solo il motore che ha dato inizio a tutto.

Poi, con il suo accento toscano, Stefano mi confida di aver avuto come allieva, per un corso one to one, niente di meno che la Regina di Thailandia. “Non posso farti vedere le foto perché ho firmato un patto di riservatezza, ma l’ho fatta timonare, ormeggiare la barca di 20 metri e anche fare i turni in cucina.”

stefano cioni mika

Stefano insieme al cantante Mika.

 

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Scritto da
Laura Doria
Laura Doria
Mi chiamo Laura Doria e sono nata al mare, quindi raccontare storie ed incontrare i personaggi del mondo della nautica è qualcosa di naturale per me. Perché è sempre un grande privilegio scrivere della passione che punta la prua verso i grandi orizzonti blu.

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